Il Nostro Villaggio della Memoria Paride Leporace - Giornalista e direttore Lucana Film Commission

Editoriali

Al tempo del selfie. Ovvero nell’epoca dello scatto compulsivo. Mai prodotte tante fotografie come al tempo del digitale odierno. Una bulimia incontrollata rischia di farci perdere il rapporto con l’immagine nata con il dagherrotipo e proseguita con la macchina oscura. Scatto. Posa, inquadratura. Sviluppo. Stampa. Attesa, Consegna. L’immagine, la foto, finiva in un album. In una cornice. In delle scatole di latta. Partiva per un lungo viaggio chiusa in una busta verso parenti lontani. La ricerca del tempo perduto e qualità proustiana da maneggiare con cura per evitare la nostalgia canaglia del passato migliore a priori del presente. Ma il sapore della madaleine (o, considerata la geografia, della varchiglia) lo assoporo nel guardare il repertorio di foto proposto dalla mostra allestita dall’instancabile Antonio Panzarella. Osservando le foto, frutto di lavoro artigiano, quello che ci fece ridere guardando la commedia di Scarpetta Miseria e nobiltà, ci s’immerge nella storia delle Calabrie e dei suoi abitanti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio di quel secolo breve che muta e trasformerà anche le nostre aspre e belluine terre.

È quello il tempo di un esodo di proporzioni bibliche che farà solcare oceani e lande disabitate ai nostri nonni disseminando i nostri cognomi in molte nuove terre del nuovo mondo. Fissare l’immagine nel tempo e nello spazio diventava esigenza nel legame. Un archivio storico fotografico della Calabria. La memoria di catastrofi come sono stati i terribili terremoti che ne hanno segnato il mutamento dei luoghi e delle antropologie fissati nel punctum e nello studium di una percezione da trasferire a coloro che sono rimasti e a quelli che verranno. Sono i ritratti di una borghesia che nell’antro del fotografo riproduce la posa austera del tinello di casa. Guardo e osservo la classe impiegatizia che ha abbandonato il borgo rurale, l’amministrazione e l’esercito borbonico per aderire ad uno Stato nazione che entra subito in conflitto con i ceti subalterni. Anche loro ritratti dalla macchina della memoria come banditi. Briganti che con la foto hanno anche un rapporto da wanted. Calabria come Far West. Romantica nei racconti e romanzi di Nicola Misasi. Pre neorealista nelle foto di questa mostra. Con i fucili a canna lunga, le lupare non ancor di ‘ndrina, i cappelli con i nastri in testa. Oggetto di studio dei Lombroso di ieri e di oggi, mitologica esaltazione della narrazione revanscista dell’irrisolto dualismo nazionale. Dopo Miglio viene Aprile. Riflettevo nel guardare queste pose brigantesche, mi veniva di confrontarle con la foto di quel goliardico preside di liceo calabrese fattosi ritrarre con la pistola a fare il boss e messo scioccamente alla berlina da stupidi media contemporanei che, fiaccamente, commentano ogni notizia di cronaca con la medesima e rituale auto della polizia e dei carabinieri. Oggi la posa di chi delinque è quella davanti alla macchina fotografica del poliziotto del servizio preposto, che al primo blitz darà il materiale utile dell’album specialistico delle segnaletiche da criminalità organizzata. La mostra fissa anche il ricordo del momento della festa. Quadri collettivi da riporre incorniciati nella nuova casa degli sposi. I ritratti ovali di marito e moglie che abbiamo visto tramandarsi per generazioni, finiti dai rigattieri, dagli antiquari, nei musei dell’emigrazione o della scomparsa (e ora forse rinata) civiltà contadina. Nella posa composta, nello studio del fotografo di professione, trovi una tenda damascata e una sedia con elegante bracciolo come scenografia di un momento storico da trasformare in eterno presente. L’obiettivo immortala una bambola nella culla adagiata accanto ad un minore dall’incerto sesso che indossa il saio del miracolato. Ben differenti sono gli esterni abitati dai nostri calabresi. Le donne con il vestito tradizionale, “pacchiana” rappresentazione del nostro recente folklore, ritratte nella quotidianità a fianco di un anziano (o è un loro coetaneo che noi del XXI secolo immersi nel giovanilismo perenne non sappiamo riconoscere?). Il capofamiglia, forse il festeggiato, sdraiato di fianco come un quadro impressionista francese e attorno tutti gli altri: militari e borghesi, ragazzini e signore. Calabresi nostri antenati. Bambini che non ridono nella mensa scolastica. La maestra, ieratica, sospesa nel Tempo, osserva la macchina a testimoniare nuovi riscatti. La sguattera, non ancora inserviente parastatale, poggiata al muro gode disincantata. Una brocca d’acqua sullo sfondo regala una sorta di metafisica natura morta. Fu il caso o la messa in scena? Rinveniamo immagini utili ai cultori del vintage più lontano, per gli stilisti estremi epigoni di Gianni Versace e per le parrucchiere innovatrici con quei colbacchi calzati al momento del ritratto; ma non manca il fiocco al collo per il maschio a far pendant al basettone uguale a quello dell’irridento Oberdan. Osservo copricapi simili a quelli dei guerriglieri afghani e pipe lunghe artigianali fumate con intenso godimento. Oggetti da tornare a riprodurre per meridiani souvenir dei nuovi immaginari. Per fortuna, non mancano i totali dei luoghi. Ripresi dall’alto, con evidente e puntigliosa ricerca del punto di ripresa. Le figure umane in scala ridotta vicino al monumento o nella vastità delle piazza. Sono quelle foto che ancora oggi ci riportano allo stato delle cose che abbiamo ascoltato nei racconti di chi li ha vissuti. Regesti viventi di piazze e slarghi. Fecero la fortuna editoriale dei quotidiani di fine secolo scorso che riuscirono a far memorie e cultura con la promozione editoriale di contenuto. Strade scoscese in corsi urbani che contengono tra i palazzi antichi piccole moltitudini locali. Un sorta di quarto stato realista, non in posa plastica da Pellizza da Volpedo, ma presepe civico del nuovo modo di avere ed essere. Non manca la bottega dove il tempo di lavoro si ferma o al massimo si sospende a giudicare gli attrezzi fissati a mezz’aria. Inquadrature affollate di uomini e arnesi di lavoro in spazi angusti. Si documentavano i ponti e le opere in costruzione. Con qualcuno che urlava “tutti fermi”. Non sapremo mai se il committente della foto era il padrone o l’occhio che cercava ingegno. Misteri della fotografia storica. Marinerie e pescatori che si adoperano a far commercio attorno alla riva vissuta da comunità litoranee. Immancabili le processioni, momento collettivo e aggregante riunito attorno alla statua del Santo o della Madonna che esce di chiesa e attraversa il borgo circondato da folla variegata. Inizio di studi antropologici che si rinnovano ancora oggi. Preziosa testimonianza di un punto di svolta memoriale che prima poggiava solo sul documento e qualche iconografia speciale dipinta per l’occasione. Iniziava, lentamente, la riproducibilità della vita quotidiana di una regione dipinta nel suo aspro realismo. Queste immagini svelarono i calabresi. Umani e fieri nella loro pose austere o dignitose. Donne vestite di nero nella rappresentazione di un lutto perenne, costante di una comunità meridionale che impiegherà circa un secolo ad elaborare la trasformazione collettiva dei suoi rituali legati alla morte. M’incanta, invece, allegramente, un giovane ed elegante signore con le bretelle e un grammofono enorme alle sue spalle, insieme alle foto attaccate al muro e dei libri sul tavolo. Lo immagino con i suoi baffi d’attore americano, intellettuale estroverso nelle nostre contrade, capace di far scandalo o spettacolo nei confronti del conservatore nei costumi, colui il quale s’immortalava soltanto nello studio del fotografo professionista. È una storia di fatti e persone quella che ci viene mostrata e dimostrata. Costruita lentamente da fotografi pionieri. Come quel Nicotra che a Vibo Valentia si apposta a riprendere in curva le macchine che sfrecciano in una corsa da Mille miglia. Fotogiornalismo temerario come tutto il mondo che mutava. Guardare per capire e narrare senza perdere contatto con la Storia. In queste fotografie rinveniamo la prima mappatura di massa del calabresi nella loro rappresentazione reale in forma d’immagine. Sono un archetipo. Una sorta di forma e vita del nostro cammino nella modernità. Siamo in presenza del quadro vivente della mitologia novecentesca del nostro essere calabresi. È questo il nostro “villaggio della Memoria”. Grazie a chi ne ha permesso la riscoperta e la contemporanea frequentazione.