La Fotografia come Salvadanaio di Emozioni Dante Maffia - Scrittore

Editoriali

La tentazione di riprendere un vecchio discorso, mai risolto completamente in un giudizio univoco, che voleva la fotografia appena come documento senza nessun merito d’arte, è forte, soprattutto ora che alle macchine fotografiche manca soltanto la parola. Sarebbe comunque un ritorno a disquisizioni estetiche con ricorsi a Croce, a Pareyson, a Eco e con riferimenti infiniti che, in questo caso, non ci servono. Partiamo dal fatto che la fotografia c’è e partiamo da queste immagini, tutte calabresi, che a “leggerle” con attenzione ci svelano un mucchio di segreti di quella microstoria a lungo sacrificata e addirittura nascosta per far rifulgere i generali e i regnanti. La fotografia non è uno scatto casuale del possessore di sofisticate o meno sofisticate macchine, ma scelta, momento magico o solenne, attimo che fugge, sintesi di vita, di esaltazione, di dolore, salvadanaio di emozioni, oltre che documento attraverso il quale si può ricostruire la storia di un’epoca. Un tempo la funzione del dagherrotipo era affidata ai racconti orali (si dipingeva, si fotografava con le parole) o alla pittura.

Dai graffiti fino ai preraffaelliti, grosso modo, i segni e il colore erano espressione artistica ma anche, consapevolmente, testimonianza di modi di essere, di agire, di pensare, di proporre, di ricordare, di fermare nel tempo una certa civiltà, dei volti, delle scene. Poi la rivoluzione e le conseguenze sono state enormi, è risaputo, ma non è molto conosciuta l’attività dei fotografi calabresi che ebbero un ruolo di primo piano nel saper cogliere, nei loro scatti, l’anima di situazioni rimaste emblematiche. Questa mostra, curata con passione e competenza, offre un catalogo di nomi e di “rappresentazioni” dinanzi alle quali bisogna soffermarsi e meditare. La pazienza sarà premiata perché al visitatore sarà subito chiaro il “romanzo” che sta leggendo, con ingredienti preziosi di antropologia, di etnologia, di storia, di umanità e di poesia. È stato svolto un lavoro, dai fotografi, che gli scritti di Nicola Misasi, di Francesco Perri, di Leonida Repaci e di Corrado Alvaro non avrebbero potuto mai fare con la evidenza e l’impietosa verità con cui lo hanno fatto gli scatti di Vincenzo Sergi, di Domenico Scarpino, dei fratelli De Maria, di Pontoriero, dei fratelli Nicotra, di Andrea Davolo, di Melchiorre Russo, di Rosario Bellini, di Del Gaudio. Essi ci hanno dato la genuinità di momenti irripetibili colti nell’attimo in cui il clic crea spavento e ansia e perciò privi di sovrapposizioni, di “commento”, di ornamenti. Quando scrivo “commento” riferendomi alla fotografia intendo la posa, i ritocchi, l’obbligo, se il soggetto è l’uomo, di eseguire gli ordini del fotografo. I nostri artisti “fatali” invece rubano d’improvviso l’accadimento e i risultati sono davanti a tutti, le fotografie sono diventate voci, percezioni di anime, anche quando ad essere nell’obiettivo è il paesaggio o un qualsiasi oggetto. Non nascondo che l’idea di scrivere un breve racconto su ognuna delle fotografie mi è “scattata” subito, appena le ho avute tra le mani. C’è in ognuna un pezzo di storia individuale e, nello stesso tempo, di storia della Calabria. Sguardi, gesti, sorrisi, malinconie, sfondi sembrano nascere da un movimento che si ripete ogni volta che qualcuno osserva. Alvaro suggeriva di conservare il maggiori numero di memorie per progettare un futuro migliore, ed è un’affermazione che contiene grandi verità. Attraverso il percorso della fotografia possiamo seguire la vita della gente di Calabria in ogni suo aspetto, sentirne il dolore e la speranza, avvertire il peso delle tradizioni, delle superstizioni, perfino della piccola vanità che qualcuno mostra timidamente. Chi potrà mai dimenticare Melusina di Alvaro? E come potrei io dimenticare quel che accadde al fotografo del mio paese? Zio Rosario divenne noto in Argentina perché ogni volta che fotografava qualcuno veniva fuori con tre teste. Uno scherzo dell’obiettivo, che fece nascere dicerie d’ogni genere, che incentivò la paura tra i semplici che vedevano nel fotografo speso uno stregone. Ma i fotografi calabresi sono stati capaci anche di accendere fuochi non indifferenti quando hanno fermato vicende che in qualche modo avevano a che fare con il sociale. Non soltanto fotografie per i ricordi, per guardarle nostalgicamente una volta lontani dalla famiglia, ma fotografie che hanno svelato condizioni altrimenti coperte dalla leggerezza e dalla superficialità dei politici. Gli emigranti, i pescatori, i contadini, i venditori ambulanti, i carriaggi, gli scorci, le vedute dei paesi… Nelle Americhe, durante alcuni viaggi, incontrando persone originarie della Calabria, ho avuto l’emozione di poter sfogliare album incredibili. Paesi come presepi arroccati attorno alla grotta (al campanile), i boscaioli, la fontana, la festa di San Rocco, di Santa Lucia, i falò del Sabato Santo, le botteghe del barbiere, del maniscalco, del falegname, del sarto, le stalle, la porcopoli. Documenti preziosi che con un’immediatezza che nessun libro di saggistica o di narrativa potrà dare mai componevano capitoli vivi e palpitanti di un romanzo dalle tinte tolstoiane. Dico tolstoiane perché è sicuramente l’autore più straordinario nel prendere il vissuto e metterlo nelle parole senza additivi letterari. Evito di soffermarmi sui dibattiti spesso scaturiti da album di questo genere: alcuni ne sono stati infastiditi perché svelano la portata massiccia della realtà dell’epoca e ne danno connotazioni che non possono essere edulcorate; altri si sono esaltati leggendoli come pagine del miglior realismo francese o del miglior verismo verghiano. Non c’è dubbio che le fotografie della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento specchino il torbido, il fermento e le inquietudini di quegli anni, ma non bisognerebbe dimenticare che la fotografia è arte, se inseguita nelle sue accensioni vitali, nelle sue sintesi e nelle sue irradiazioni sociologiche, politiche, culturali e perfino spirituali. Se poi dall’anima di chi punta la “preda” e ferma la “lievitazione” in atto esce il fuoco dell’adesione, della complicità con il soggetto, allora la fotografia diventa poesia, bellezza che non vive soltanto del fattore estetico, ma di qualcosa di perennemente vivo. Mi pare che quasi tutto ciò che è esposto in questa mostra abbia il crisma della poesia, a dimostrazione che ancora una volta la Calabria ha saputo essere interprete corale di un futuro in atto che, per citare un bellissimo titolo di Carlo Levi, ha un cuore antico da cui bisogna saper suggere la giusta dose di alimento.