Il lungo percorso per la concretizzazione di un archivio storico-fotografico della Calabria è stato perlustrato da numerosi studiosi della regione e, tuttavia, è stato sempre regolarmente trascurato, oppure è stato considerato un episodio minore, seppur apprezzabile, per le politiche culturali regionali. A questa pluriennale mancanza di attenzione ha finalmente rimediato la Fondazione Archivio Storico Fotografico della Calabria, con l’organizzazione di un fondo che raccoglie tutti i prodotti ancora reperibili di questo prezioso patrimonio. Questa struttura abbisogna anche di una sede adeguata, nella quale possa essere collocata la raccolta di questo ambito storico e tecnico, che costituisce un elemento insostituibile per conoscere gli usi e i costumi di un’epoca e mettere a fuoco la ricerca sulla memoria del Mezzogiorno, oltre che della Calabria. Come ha puntualizzato Lorenzo Scaramella nella nota di presentazione della mostra La luce dell’ombra, per la prima volta realizzata a Roma presso la British School nel periodo fra il 21 febbraio e l’8 marzo 2007: La nascita della fotografia non fu affatto una sorpresa, dal punto di vista storico. Essa fu una logica conseguenza dell’evoluzione illuministica e del porsi della borghesia a classe dominante, fenomeno caratterizzante la fine del Settecento e, fondamentalmente, tutto l’Ottocento.
(Lorenzo Scaramella, “Un punto di vista storico”, in Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici, Edizioni De Luca, Roma 1999). Questo ci fa sostenere che possiamo volgere uno sguardo attento a questa applicazione della tecnica all’arte, come sintesi della decostruzione della memoria, e da questa angolazione scoprire di essere testimoni del trasformarsi della magia della luce in un processo dove le leggi della chimica e della fisica definiscono il valore del segno e delle immagini catturate, secondo lo stile dell’autore e la temperie del momento. Alcune importanti testimonianze evidenziano tutto il rilievo di questa interpretazione ed indicano l’opportunità di assumere questo preciso impegno. Per citarne due solamente, di un certo interesse per la lettura della realtà meridionale, faremo riferimento alla mostra, Sguardo e memoria. Alfonso Lombardi Satriani e la fotografia signorile nella Calabria del primo Novecento, curata da Luigi Lombardi Satriani e raccolta in volume a cura di Francesco Faeta e Marina Miraglia (Milano-Roma, Mondadori-De Luca), e quella raccolta in volume da Gesualdo Bufalino per la casa editrice Sellerio, con il titolo Comiso ieri. Immagini di vita signorile e rurale. Quest’ultima, in particolare, mette in luce l’incontro fra l’interpretazione letteraria e la tecnica fotografica nella felice occasione della scoperta dello scrittore di una raccolta di vecchie fotografie scattate fra ’800 e ’900 da due nobili siciliani, Francesco Meli e Gioacchino Iacono Caruso, trovate «ai piedi degli Iblei» in una villa fattoria a Comiso. La raccolta, pubblicata nel 1978, con il saggio introduttivo di Gesualdo Bufalino, raccontava il passato del paese ibleo agli albori veristi della fotografia, attraverso alcuni scatti di fine Ottocento e confermava l’intuito dello scrittore riferito ad una società che aveva sostenuto il proprio passato con una consapevolezza illuministica del progresso. Proprio sul finire del secolo questi due esponenti dell’aristocrazia, come altri del loro rango avevano fatto altrove, furono attratti dal contagioso gioco della fotografia, prodromi di un influsso che investì persino la casa reale dei Savoia, col giovane Principe di Napoli, futuro Vittorio Emanuele III, offrendo la pratica della riproduzione fotografica come costoso privilegio di casta, pur se non priva, però, di un suo fascino poetico e di una forte immagine rievocativa, come sottolinea lo stesso Bufalino nell’introduzione: Le case – nane, tozze, ma le rallegra agli stipiti un’improvvisa pergola di gelsomino – in parte salgono verso i primi carrubi della costa; in parte si sporgono sul greto dell’Ippari, ridotto ormai da pozzari e ladri d’acqua a una ruga sottile e secca; in parte fanno ressa e cicaleccio attorno a un’antica fontana. Proprio questa attenzione sarà motivata dal consolidarsi di uno “sguardo signorile”, che troverà conferma in Calabria, con la realizzazione di una memorabile mostra fotografica, curata da Luigi Lombardi Satriani, che recupera gli scatti del padre Alfonso per il proprio ambiente e il rapporto col mondo paesano, tra il finire dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. La produzione amatoriale del fotografo nobiliare, “mostrando una spiccata sensibilità antropologica”, si collegava all’ambiente familiare ed alle persone che facevano parte della dimensione domestica col loro presentarsi intenti ai giochi dell’infanzia e ai rituali del proprio paese natale. E da questo bisogno di documentare, o di raffigurare il passaggio della vita attraverso i volti, come per fermarla, prende avvio e si consolida nella cultura popolare il rituale di fermare un’immagine – almeno una volta nella vita – per eternizzare la propria presenza nell’esserci-nel-mondo, ed è proprio questo bisogno a determinare nelle comunità una spinta all’innovazione, che favorirà il diffondersi del mezzo fotografico ed il ricorso alla fotografia per documentare la propria presenza, anche per le classi più povere. Nascono così i primi fotografi ambulanti, accanto agli aristocratici, per definire in un breve lasso di tempo, anche nel Sud, l’affermarsi di una professione che diventa indispensabile nelle comunità e nei paesi, anche i più lontani e disagiati. Questi fotografi percorrono chilometri e contrade a dorso di mulo, trasportando il loro armamentario fatto di fondali dipinti, di arazzi e costumi, oltre che di treppiedi e di grandi macchine fotografiche a chassis, per raggiungere luoghi sperduti, anche case sperse, perché la fotografia diventa un bisogno imprescindibile, non solo per fissare per sempre la presenza in un tempo immobile ed eterno, ma anche per essere in luogo “diverso” dalla propria condizione reale. La fotografia, di fatto, documentava la presenza di un’assenza, cioè il sottile desiderio di garantire la presenza di sé nel tempo futuro non come si è, ma come si vorrebbe essere e come non si è mai stati, sopravvivendo nei ricordi, anche i propri, possibilmente all’infinito, in un dover essere al quale si attribuisce l’appellativo di specchio fedele delle realtà, che equivale a sancire immediatamente la propria esistenza. Questo tradimento dell’apparenza produce una diffusione della professione e più i fotografi saranno dei manipolatori della luce e garanti del ritocco di immagine, più questi professionisti diventeranno i nuovi provetti elaboratori della realtà. Nascerà allora, la professione del fotografo, che diventerà a tutti gli effetti artista in opposizione con i pittori, perché la fotografia non può essere bugiarda, mentre il pittore, sublimando l’immagine, di fatto seleziona e perfeziona i particolari, quindi falsa la realtà. Anche la fotografia può essere bugiarda, perché il fotografo impara a giocare con la luce e ad “influenzare” lo specchio della realtà, per renderla credibile nella sua manipolazione: è un giuoco che è iniziato molto presto per i fotografi professionali e anche per gli studiosi che hanno usato la fotografia per sorprendere la realtà. La fotografia, in effetti, deve migliorare la realtà per renderla più accettabile, o semplicemente più leggibile, e, quindi, deve necessariamente riuscire a manipolarla. Questo fa del buon fotografo un artista e non semplicemente un tecnico ed è su questa simulazione che si sviluppa l’arte della fotografia, nel contesto del suo diventare strumento per comunicare sensazioni, ricordi e riferimenti. Da tale presupposto si muove la collezione di questa ricerca, che tende a raccogliere le esperienze dei fotografi che hanno operato in Calabria tra l’Ottocento e il Novecento, recuperando la memoria storica, il contorno ambientale e la concezione della memoria che si voleva tramandare. Operando su questo patrimonio, quindi, si potrà continuare a realizzare il censimento preciso di quei fondi fotografici di interesse storico ed il reperimento del patrimonio sparso e disperso, nonché del suo restauro e della sua salvaguardia, per procedere, poi, a mostre che operino per rendere fruibile il materiale individuato e costruire ulteriori percorsi di ricerca, fino ad ora inesplorati (restauro, gigantografie, estrazione di particolari, monocromie, ecc.). Consapevoli che la fotografia si è ormai inesorabilmente allontanata dalla rappresentazione storica della realtà, si possono operare allestimenti di presentazioni, per individuare caratteri specifici delle opere originali e rendere palese la nostra percezione selettiva. Ci pare, così, di rappresentare il vero, anche se è necessario ricorrere ad allestimenti di scene artificiali e rigorosamente progettate per renderlo credibile, possibilmente senza manomettere lo spirito degli autori, ma cercando di valorizzarlo. Confrontandoci col pensiero di un antropologo visivo, come Francesco Faeta, ci piace ribadire che di recente si è riconosciuto il principio che noi vediamo ciò che vogliamo vedere e che questo si confronta con quello che altri, in un certo tempo, hanno realizzato secondo il loro punto di vista e che consta in quello che essi hanno voluto vedere. La nostra percezione permette di costruire un’interpretazione che si colloca tra teoria della visione e riflessività della conoscenza. In tal senso, possiamo perseguire un’osservazione che rispetti la posizione proprio di “questo aspetto rimemorativo”, con il quale è vissuto l’oggetto della nostra osservazione (e riproposizione), preservandone il riconoscimento, per soddisfare il paradigma scientifico delle discipline etno-antropologiche. Facendo però attenzione a non cadere nel paradosso, che espressamente si palesa e nel quale spesso cade la ricerca – soprattutto – iconografica del Mezzogiorno: Il paradosso cui l’etnografo e l’antropologo vanno incontro è che, mentre osservano, costruiscono la condizione di coevità che dovrebbe essere tratto distintivo della loro forma specifica di conoscenza, e mentre, invece, un attimo dopo, fotografano, cristallizzando tale osservazione in immagine, sprofondano ciò che osservano in un ineluttabile passato (Francesco Faeta, Le ragioni dello sguardo, Bollati-Boringhieri, Torino). Ritengo che questa attenzione teorica dell’osservazione della fotografia sia stata ben coniugata con l’innovazione tecnologica e che essa abbia permesso di rendere fruibili le immagini di questo periodo storico, pur con la dovuta attenzione all’aspetto tecnico strictu sensu, cioè considerando il momento espositivo come uno degli aspetti principali per la realizzazione delle mostre dei documenti iconografici.
